giovedì 20 febbraio 2014

Dead Cat in a Bag - Late for a Song (Recensione)

L’eccesso di emotività, la trasfigurazione estetica dell’esistenza, l’esposizione disarmante del pathos vengono spesso interpretate come autocompiacimento e mancanza di autenticità.  Come se solo la metabolizzazione formale delle fatiche esistenziali fosse legittima, e non ci fossero altre vie alla sopravvivenza se non la placida rimozione. Questa corte dei miracoli, capeggiata da Luca Andriolo, è maestra nell’accattonaggio dei ricordi, nonché in un romanticismo da due soldi che mi ricorda troppo uomini disperati e affranti che ho amato, che il tempo o la vita o i chilometri tengono lontani, per non soggiogarmi. La ricognizione insieme furtiva e antiquaria di quello che resta è tradotta in un suono non convenzionale e insieme ancestrale, polveroso e domestico; chiunque abbia familiarità con tramonti che anticipano notti insonni e albe consumate nell’alcol, riconosce all’istante questo arazzo di note, grottesco e pedagogico come un film di Tod Browning. Il diorama complesso della varietà sonora affiora e si impone negli episodi strumentali: "Trop tard pour une chanson" o "Za późno na piosenke", in cui la balalaika si ripiega mesta sull’abbandono patito e attuato, mentre fiati seguono l’incedere di un condannato a morte in "Once At Least", o l’iniziale "Not Even More", preludio all’esemplare dittico "Nothing Sacred e Ravens at my Window", in cui la frontiera dei Calexico incontra la sordida e rassegnata violenza dei Crime and The City Solution, rivelando nel fallimento già segnato il proprio manifest destiny. "Silence is not pure" incastona ukulele e moog nella cornice di fiati cinematografici, carichi di una malinconia millenaria, prima che prima che la sulfurea interpretazione di "The House of the Rising Sun" irretisca in un sordido maleficio, innescato dalle corde del mandolino.

Le liriche sono cronache di una quotidianità ora fuggita ora presa in pieno, in cui la poesia si cela oltre l’ottusa cortina dell’ovvio; la singolarità esistenziale chiamata in causa, così universale da essere anche mia, si palesa disarmante negli interventi a cuore aperto di "Unanswered Letters" e "Old Shirt", confessione infera in cui la voce di Andriolo si propaga come un’esalazione di palude, fino all’esasperazione conclusiva che sovrasta l’ottundimento strumentale. "Wanderer’s Curse" testimonia che l’intrattenimento è solo uno stratagemma per ingannare il tempo nell’attesa della fine, e la gioia il pretesto per dimenticare le sventure di zingari depressi, condannati da una malasorte senza scampo. Dopo J"ust Like Asbestos", rivestita dalla trama di velluto scadente della voce, "It’s a Pity" gira la manovella del vaudeville di spettri chassidim, in cui matrimoni e funerali condividono lo stesso umore di tragica esaltazione. Il sigillo di "All those things" diluisce adeguatamente l’intensità del lavoro in una resa, che non teme di riconoscere come una sentenza il peso più grande: il passato deve perseverare ancora.

Voto:  ◆◆◆
Label: ViceVersa Records


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